I DIRITTI DEL POPOLO PALESTINESE E LA "QUESTIONE TERRITORIALE"

Comunicazione al Seminario organizzato dall'ONU sugli "Inalienabili diritti del popolo Palestinese"

SOMMARIO

Il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese

1 - La politica israeliana di annessione dei territori occupati.

2 - Non c'è autonomia senza la creazione di uno Stato palestinese.

3 - Il valore strategico dello scontro in Cisgiordania e Gaza.

4 - Lo "status" di Gerusalemme è decisivo per una pace globale.

Il reciproco riconoscimento di tutti gli Stati del Medio Oriente  

Lo stato di tensione che perdura nel Medio oriente conferma che tra le condizioni essenziali per una pace durevole in quell'area c'è il riconoscimento dei diritti legittimi del popolo palestinese. Questa affermazione è ripetuta in tutte le prese di posizioni delle Nazioni Unite in argomento. Anche la Comunità Economica Europea ha fatto proprio questo principio. Nella dichiarazione di Venezia del giugno 1980, è detto esplicitamente che il "popolo Palestinese, che ha coscienza di esistere in quanto tale, deve essere mes­so in grado, mediante un processo adeguato definito nel quadro della soluzione globale di pace, di esercitare appieno il suo diritto alla autodeterminazione ". Non vi è dubbio che il diritto di un popolo alla autodeterminazione si configura come diritto a costituire una autorità nazionale, pienamente sovrana, espressiva di uno Stato indipendente.

In un contesto assai diverso si colloca la controversa definizione del concetto di "autonomia palestinese" oggetto, nell'ambito degli Accordi di Camp David, del complesso negoziato in corso tra Israele ed Egitto. L'interpretazione israeliana è peraltro assai restrittiva. Essa non va oltre il riconoscimento di una limitata autonomia solitamente riservata, in uno Stato nazionale che rivendica una piena sovranità, alle minoranze etniche. I vari governi israeliani succedutisi dopo il 1967, si sono sempre richiamati in forma più o meno rigida alla sostanza di una sentenza della loro Corte suprema la quale ribadisce che "Israele è lo Stato di tutto il popolo ebraico ovunque esso sia" in forza "del diritto storico di quest'ultimo su tutta la Palestina". Sembra assai difficile giungere, sulla base di queste premesse, ad una definizione estensiva dell'autonomia applicata alla questione palestinese.

E' apparso recentemente, sull'autorevole "Jerusalem Post", un articolo che osserva, a proposito della concessione di autonomia ai palestinesi di Cisgiordania e di Gaza, che il diritto all'autonomia diventa anche diritto di decidere "sotto quale sovranità si desidera vivere, o almeno sotto quale non si desidera vivere", ma è evidente che il risultato concreto di questa polemica sui due fronti verso Israele e la Giordania è la rivendicazione di uno Stato palestinese. Si può aggiungere che, tradizionalmente, lo "status" giuridico della autonomia viene concesso alle minoranze da uno Stato nazionale pacificamente accettato. Ad una popolazione che è maggioranza e rivendica propri diritti nazionali è logico consentire, più propriamente, l'esercizio dell'autodeterminazione. Con la risoluzione 3236, del 1974, l'ONU ha riconosciuto al popolo palestinese questi diritti. E' del tutto naturale che essi vengano ora interpretati nel senso della costituzione di uno Stato indipendente, sovrano, dotato di un territorio definito entro confini sicuri e vincolato agli obblighi internazionali nei suoi rapporti con gli altri Stati.

1 - La politica israeliana di annessione dei territori occupati.

L'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) abbandona proprio nel 1974 e con riferimento alla risoluzione 3236, o meglio rinvia a tempi lunghi e a mezzi politici pacifici, l'obiettivo massimalistico di uno "Stato palestinese laico, democratico, unitario in nome di un diritto storico del popolo palestinese su tutta la Palestina". Diventa cosi praticabile l'ipotesi che i diritti nazionali del popolo palestinese possano essere assicurati attraverso la creazione di uno Stato indipendente nei territori occupati da Israele nel 1967 e che, in conformità con la Carta dell'ONU, il nuovo Stato riconosca le realtà esistenti ed il diritto alla sovranità, all'integrità territoriale, all'indipendenza, di tutti gli Stati della regione come base di una convivenza pacifica entro confini sicuri e riconosciuti.

Anche la delicata questione del riconoscimento dello Stato di Israele, da parte dei palestinesi, può essere cosi risolta, congiuntamente con la reciproca sottoscrizione di accordi, garantiti internazionalmente, alla fine del negoziato globale di pace. Questi principi sono esplicitamente contenuti in un progetto di risoluzione presentato al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, nel gennaio del 1976, da parte di un gruppo di Paesi non allineati. Tale risoluzione non venne purtroppo approvata nonostante la disponibilità dell'OLP ad accoglierla, per il veto posto dagli Stati Uniti. Ma negli anni successivi importanti sviluppi sono stati registrati in proposito. L'OLP ha tenuto ferme, pur tra molte difficoltà, le scelte compiute allora sulla scorta di un apprezzabile realismo. La Comunità Economica Europea, soprattutto dopo gli Accordi di Camp David, è venuta via via assumendo una posizione costruttiva circa la necessità di riconoscere i diritti legittimi del popolo palestinese (compresa l'autodeterminazione), di garantire internazionalmente la sicurezza a tutti gli Stati della regione, di associare l'OLP ad un negoziato globale di pace. Il piano del principe Fahd, promosso dall'Arabia Saudita, si muove ancor più esplicitamente nella stessa direzione e allarga notevolmente le possibilità di dialogo tra tutte le parti interessate.

Persistono difficoltà politiche. Grandi incertezze condizionano il processo avviato a Camp David se i protagonisti più interessati, a cominciare dagli Stati Uniti, non sono nelle condizioni di passare da accordi separati, per loro natura precari, ad un più generale progetto di pace che si ricolleghi agli sforzi posti in atto dalla CEE e dalla maggioranza dei Paesi Arabi. Rilevante è l'ostacolo del rifiuto di Israele di riconoscere i diritti nazionali del popolo palestinese e la rappresentatività, ai fini di un negoziato globale, dell'OLP. Ma ulteriori difficoltà emergono dal configurarsi, in termini più preoccupanti del passato, di una "questione territoriale" che è la chiave di volta di ogni accordo politico e di una pace giusta e durevole.

La Comunità Economica Europea, con la Dichiarazione di Venezia, ha invitato Israele a porre fine "all'occupazione territoriale messa in atto dal conflitto del 1967, come ha fatto per una parte del Sinai". Facendo eco alle ripetute raccomandazioni delle Nazioni Unite, la CEE ha inoltre deplorato gli "insediamenti israeliani", che costituiscono un ostacolo grave al processo di pace nel Medio Oriente, avvertendo che le "modificazioni di carattere demografico ed immobiliare, nei territori arabi occupati" sono illegali alla luce del diritto internazionale. Importante è anche il rifiuto di iniziative unilaterali che abbiano lo scopo di mutare lo "status" di Gerusalemme.

Ma dal giugno del 1980 ad oggi la situazione è peggiorata in tutti i campi, a causa della politica annessionista di Israele, e può diventare un ostacolo insuperabile per qualsiasi tentativo di negoziato globale. E' sempre più evidente che il primo Ministro Begin, quasi per compensare la contrastata restituzione del Sinai all'Egitto punta contro ogni regola del diritto internazionale a rendere irreversibile la presenza israeliana in tutti gli altri territori arabi occupati per precludere di fatto ogni trattativa che ponga, al suo centro, la costituzione di uno Stato palestinese in conformità con la Carta dell'ONU. Ogni atto di annessione dei territori arabi occupati, da parte di Israele, è respinto e condannato dalla Comunità Internazionale perché apertamente contrastante con il diritto e fonte di incalcolabili conseguenze politiche. E' accaduto con la grave decisione di considerare Gerusalemme città capitale indivisibile ed eterna dello Stato di Israele; nel luglio del 1980, con la arbitraria annessione delle alture del Golan, nel dicembre del 198l ed in piena crisi internazionale per la Polonia, ed è in atto in Cisgiordania e Gaza con le misure che tendono, sulla base di un progetto unilaterale di autonomia, ad integrare territorio e popolazione nella legislazione israeliana.

2 - Non c'è autonomia senza la creazione di uno Stato palestinese.

La successione degli avvenimenti esclude che si tratti di fatti casuali. I singoli atti di annessione dei territori arabi occupati, in aperto contrasto con i ripetuti richiami del Consiglio di Sicurezza, il dissenso della CEE, la protesta dei Paesi arabi, sono i gesti calcolati di una strategia di forza che tende a condizionare gli stessi Stati Uniti per una applicazione restrittiva, nel senso di una pace rigidamente separata, degli accordi di Camp David. Anche la scelta dei tempi è indicativa. La restituzione del Sinai all'Egitto, nell'aprile di quest'anno, è secondo Begin il massimo delle concessioni possibili in materia di rinuncia al controllo sui territori arbitrariamente occupati dal 1967.

Le difficoltà del negoziato tra Egitto e Israele su tutti gli altri problemi, dall'autonomia dei palestinesi allo "status" di Gerusalemme, sono destinate ad aumentare sino ad arenarsi. Non è immaginabile che il presidente egiziano Mubarak, la cui prudenza è comprensibile sino al completo recupero del Sinai, possa accettare un progetto di pace separata e limitata persino rispetto agli impegni assunti a Camp David in un clima di accentuata contrapposizione con tutti gli altri Paesi arabi, a cominciare dai moderati, e di fronte alla inevitabile acutizzazione della crisi palestinese.

L'eventuale disimpegno dell'Egitto significherebbe, in pratica, il fallimento del processo avviato a Camp David e lo stesso presidente americano Reagan, che ha già reagito con energia a gesti unilaterali e illegali di Israele, potrebbe anche essere costretto a rivedere la propria politica in Medio Oriente per non disperdere i risultati dell'approccio flessibile, in corso da qualche tempo, tra Stati Uniti ed Arabia Saudita.

La politica delle annessioni territoriali, oltre a violare il diritto internazionale come si ammette anche a Washington, modifica in profondità la situazione esistente e pregiudica, insieme ad ogni ipotesi di negoziato globale, soluzioni future.

E' fondata la richiesta di Chedil Klibi, a nome della Lega Araba, per energici interventi della Comunità internazionale presso il governo israeliano allo scopo di indurlo "a porre fine alle aggressioni in Cisgiordania che minacciano di aggravare la situazione già tesa nella regione".

Le condanne del Consiglio di Sicurezza dell'ONU non bastano di fronte allo Stato di Israele che le disattende sistematicamente. La Comunità internazionale deve proporsi iniziative più efficaci. E' urgente una iniziativa congiunta degli Stati Uniti e dell'Europa dei dieci, possibilmente, nel quadro delle Nazioni Unite, per bloccare un processo di acquisizioni territoriali ottenute con la forza che contrasta, per i suoi effetti giuridici e politici, con i diversi progetti di pace globale e durevole predisposti per il Medio Oriente. Non è casuale la condanna delle misure israeliane in Cisgiordania e la richiesta di interventi adeguati da parte del rappresentante egiziano all'ONU. Il Presidente Mubarak, oltre a dichiararsi non disposto a modifiche di confine per quanto riguarda la restituzione del Sinai, ha polemicamente richiesto la ripresa di negoziati per la autonomia palestinese, da tempo bloccata dall'intransigenza di Israele, sottolineando significativamente che lo sbocco di tale autonomia in Cisgiordania e Gaza deve essere la creazione di uno Stato palestinese. Questa posizione dell'Egitto non è trascurabile anche in rapporto alla tenuta e allo sviluppo degli Accordi di Camp David. La forte tensione in atto nella Cisgiordania e a Gaza, imprevedibile nei suoi sviluppi dopo la provocatoria destituzione dei Sindaci di El Bireh, Nablus e Ramallah, e l'adozione di drastiche misure repressive è destinata ad aumentare e a collegarsi con la lunga e tenace resistenza in corso sulle alture siriane del Golan e a Gerusalemme. E' prevedibile una ripresa delle tesi più oltranziste nell'OLP con conseguenze gravissime nell'intera area Medio Orientale. Lo stesso Begin è sempre più esposto, a causa delle sue ultime decisioni, ad una grave crisi politica interna dalla quale può sortire nonostante il salvataggio in extremis con un voto di parità nel Parlamento israeliano, la caduta del governo con drammatiche elezioni anticipate. Minori resistenze aveva incontrato, il governo di Tel Aviv, nel far approvare il colpo a sorpresa della estensione al Golan della legislazione israeliana che, come è noto, è la forma giuridica della politica di annessione. 

3 - Il valore strategico dello scontro in Cisgiordania e Gaza.

Va notato che lo scontro in Cisgiordania non può che essere più duro perché si tratta di un territorio occupato destinato a divenire, per una serie di ragioni, il nucleo centrale di una entità nazionale palestinese, la base di un possibile Stato indipendente, nel quadro di una pace giusta, globale, durevole. Il passaggio a forme di gestione civile, rispetto all'esercizio di un potere militare di occupazione per sua natura provvisorio, nelle intenzioni del governo occupante, è un atto concreto e irreversibile verso quella integrazione giuridica della popolazione palestinese nello Stato di Israele che è l'esatto contrario del riconoscimento del diritto dell'autodeterminazione.

Lo studioso americano Everett Mendelsohn, docente ad Harvard, ha confermato in una ricerca condotta per una commissione del suo Paese che il filo conduttore delle misure adottate tende ad una annessione di fatto in vista di una acquisizione definitiva. La nuova amministrazione civile, che dovrebbe sostituire quella militare, rappresenta l'applicazione unilaterale di una autonomia funzionale alla rivendicazione della sovranità israeliana sul territorio occupato. Le "Leghe di villaggio", costituite dall'autorità di occupazione con centinaia di militi volontari disposti a portare armi israeliane, sono strumenti che si propongono un analogo fine ed introducono una lacerazione sociale esasperando il conflitto.

Tutte queste misure hanno, come conseguenza, un esito di radicalizzazione e di scontro che toglie credibilità ai sostenitori di una soluzione negoziata, realistica, basata sul riconoscimento reciproco tra Israele e uno Stato palestinese in formazione secondo una linea di comportamento da tempo avallata dalla maggioranza dell'OLP. La politica di integrazione amministrativa e giuridica, che è uno degli strumenti più importanti del progetto di annessione territoriale, ha effetti sociali ed economici destinati ad influire fortemente nel lungo periodo. Secondo dati attendibili il prodotto lordo è aumentato, in Cisgiordania e Gaza, dal 1967 ad oggi, di circa il l3% annuo mentre il reddito pro-capite ed i consumi privati sono aumentati rispettivamente dell'll% e del 9%. La crescita è soprattutto determinata dal pieno impiego. Nel 1968 le persone occupate erano l27 mila e sono passate, nel 1979, a 2l2 mila di cui 73 mila in Israele

Forte è stato lo sviluppo nei consumi. La diffusione degli apparecchi radio è passata dal 58% al 79,4% delle famiglie, quella della televisione dal 2% al 46,7%. Le automobili hanno raggiunto il 4,3% (l0% nelle città), rispetto al 2% precedente, nell'arco di tempo considerato per i dati citati.

In questo processo di sviluppo non sono certo mancate distorsioni e squilibri sociali. La logica è quella di qualsiasi politica di colonizzazione. L'aumento del benessere, per talune categorie, è un legame crescente tra chi amministra le terre occupate e chi acquisisce vantaggi sconosciuti in precedenza. L'avvento di uno "status" di autonomia, di indipendenza, può così essere presentato come il rischio di una perdita di privilegi. Non è la prima volta, nella travagliata storia del colonialismo, che la conquista dell'indipendenza è pagata con una drastica caduta del tenore di vita in mancanza di una cooperazione internazionale adeguata che consenta, con il superamento degli squilibri sociali, di proseguire una fase di sviluppo e di generalizzare opportunità e benessere.

L'analisi ha una sua particolare validità applicata alla Cisgiordania e a Gaza. A differenza di Israele, dove era storicamente prevalente una classe sociale di contadini arabo-palestinesi successivamente proletarizzata, in questa zona non mancano residui di piccola borghesia mercantile, nuclei di media attività economica, elementi produttivi pre-capitalistici. Queste classi sociali non hanno conosciuto la crescente affermazione registrata, ad esempio, in molti Stati arabi in cui i palestinesi sono divenuti forza ragguardevole e concorrenziale nell'ambito di quelle economie. Ma la possibilità di favorirne una certa crescita, separandole di fatto dalla causa palestinese, esiste certamente in Cisgiordania e Gaza. E' pertanto pienamente giustificato l'accentuarsi della resistenza palestinese di fronte ad una politica di annessione territoriale, di integrazione amministrativa ed economico-sociale da parte di Israele. La nascita e la costituzione di uno Stato indipendente, necessità vitale per l'affermarsi di una entità nazionale palestinese, deve poter contare sul concorso attivo di tutte le classi sociali, di tutte le energie, produttive e rischia la sconfitta se, per gli effetti di una politica di integrazione, essa viene sempre più affidata a strati emarginati indotti ad una lotta disperata a senza vie di uscita sul terreno del negoziato.

4 - Lo "status" di Gerusalemme è decisivo per una pace globale.

Una importanza particolare, in questo contesto, acquista anche la questione di Gerusalemme. La decisione di Israele, nel luglio del 1980, di considerare Gerusalemme "città capitale indivisibile ed eterna dello Stato" è stata una delle prime a più gravi indicazioni della volontà di frapporre ostacoli insormontabili ad un negoziato globale di pace. Anche in questo caso la scelta è stata preceduta e accompagnata da un processo di penetrazione sociale rivolto ad alterare, nella conformazione stessa della popolazione residente, il carattere pluralistico e multireligioso della città.

Si tratta di un altro esempio di una politica dei fatti compiuti attraverso l'annessione territoriale e la ricerca, in contrasto con diritti di portata internazionale più ampia della stessa rivendicazione arabo-palestinese, di uno "status" giuridico unilaterale di una città unica al mondo per una tradizione ed un ruolo universalistici. E' significativo che già nel 1969, di fronte ad un piano urbanistico del municipio di Gerusalemme che prevedeva una limitata densità di popolazione ebraica, uno sviluppo equilibrato corrispondente alla natura composita della città, il governo israeliano imponesse correzioni discriminatorie rispetto alla popolazione araba. Nel dicembre del 1970 il prof. Samuel M. Mozes, dell'Istituto americano di urbanizzazione, nella sua qualità di membro di un gruppo di lavoro di ingegneri e architetti chiamati ad esprimere un giudizio sulla politica urbanistica della città ebbe a dire che nel piano regolatore elaborato non vi era "una sola espressione del carattere singolare di Gerusalemme. Non vi state occupando di una qualsiasi città di Israele - ha osservato l'esperto americano, rivolto agli amministratori di Gerusalemme - ma di una città che è santa per tutti noi". Prevalente, nel gruppo degli studiosi, fu l'auspicio di una "de-sovranizzazione della città perché potesse diventare territorio di tutti (worldman territory)".

Il piano, comunque, è stato attuato con numerosi arbitrii e i suoi effetti sono stati opposti a quelli necessari per realizzare, secondo una acuta e condivisibile osservazione del gesuita Giovanni Rulli sull'autorevole rivista "Civiltà Cattolica", un passo "verso la pace tra due popolazioni - araba ed ebrea - che devono poter convivere nella città, con effettiva parità di diritti e di doveri, non per concessione unilaterale di parte, ma in virtù di un accordo, obiettivamente ben definito, di uno speciale statuto giuridico riconosciuto e garantito dalla Comunità internazionale". Non sono mancate, anche in Israele, forti critiche alla politica annessionista applicata a Gerusalemme. Componenti non trascurabili del movimento di emancipazione del popolo ebraico hanno ribadito, in più di una occasione, che tale finalità può essere realizzata soltanto a condizione che i diritti nazionali degli arabi palestinesi siano anch'essi presi in considerazione. "Una società democratica, giusta, egualitaria e promotrice di pace - è detto ad esempio in un documento del congresso dell'Unione mondiale giovani studenti ebrei svoltosi a Gerusalemme alcuni anni fa - non può non riconoscere il diritto all'autodeterminazione di tutti i popoli".

A distanza di anni il problema è sempre uguale. L'insistenza del ministro israeliano degli esteri, Shamir, per discutere a Gerusalemme di ogni problema con interlocutori stranieri è la riprova della volontà di coinvolgere, di fatto, la opinione internazionale nell'accettazione dello "status" giuridico deciso arbitrariamente nel 1980. Nella città santa, intanto, vige ancora il regime militare di occupazione, non sono applicate le leggi civili israeliane, ma la tensione aumenta come in tutti gli altri territori occupati. Inquietudini, proteste, arresti e repressioni sono la conferma che, anche a Gerusalemme, bisogna tornare indietro da una politica di annessione e di alterazione dei naturali equilibri sociali ed etnici della popolazione che si scontra, oltre che con le rivendicazioni arabo-palestinesi, con posizioni di principio ripetutamente affermate sul piano internazionale.

Non si può infatti dimenticare che Gerusalemme è città unica al mondo, nella quale le tre grandi religioni monoteiste - la cristiana, l'ebraica, la musulmana - hanno la possibilità di raccomandare agli uomini il rispetto dei valori della tolleranza, del dialogo, della comprensione, soltanto se si respinge la pretesa di imporre con la forza uno "status" unilaterale ed inaccettabile quale quello che Israele vorrebbe affermare. Queste difficoltà non sono superabili con una generica disponibilità ad assicurare, per tutte le religioni, la libertà di culto. Il problema, oltre che religioso, è storico e politico e va risolto, al di là di una sovranità territoriale e di una funzione singolare di una città santa, come esempio di coesistenza pacifica, di tolleranza reciproca, per un corretto rapporto tra Stati diversi nell'area del Medio Oriente.

Le considerazioni svolte dimostrano che non vi può essere una pace giusta e globale nella regione medio-orientale se, in vista di un auspicabile raffreddamento delle tensioni e di una ripresa - possibilmente nell'ambito delle Nazioni Unite - del negoziato globale, continuano ad essere sottovalutate le modificazioni di fatto che alterano gli assetti territoriali, gli squilibri sociali, le connotazioni etniche, culturali, religiose e politiche della popolazione. L'ONU ha sempre insistito, giustamente, sul ritiro di Israele da tutti i territori occupati dal 1967 in poi. Gli Accordi di Camp David, se si rifiuta la interpretazione riduttiva degli israeliani non sempre avallata dagli americani, hanno incluso impegni significativi per l'autonomia dei palestinesi.

La Dichiarazione di Venezia della CEE, nel 1980, è esplicita nell'affermare la necessità di porre fine "alla occupazione territoriale messa in atto dal conflitto del 1967" e definisce un ostacolo grave al processo di pace nel Medio Oriente" la politica degli insediamenti israeliani nei territori occupati. Il piano del principe Fahd, che ammette implicitamente il riconoscimento all'esistenza ed alla sicurezza dello Stato d'Israele, non lascia dubbi circa il ritiro dalla totalità dei territori occupati nel 1967 - compresa la parte orientale di Gerusalemme - e lo smantellamento di tutte le colonie edificate dagli israeliani nelle zone occupate, la garanzia di completa libertà, per i credenti di tutte le religioni, di compiere i propri riti nei rispettivi luoghi santi, il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese sia al ritorno nella sua patria (o ad un indennizzo per chi non intenda ritornare), sia alla creazione di uno Stato palestinese, nella Cisgiordania, con Gerusalemme capitale.

Tanto l'Arabia Saudita, quanto l'Europa dei dieci, convergono nell'affermazione che al negoziato di pace è indispensabile associare, in rappresentanza del popolo palestinese, l'OLP. A questa tesi, solitamente, si oppone - anche da parte degli Stati Uniti - che nessuno sblocco è possibile se non vi è il riconoscimento, da parte dei palestinesi e dei Paesi Arabi, dello Stato di Israele. Non c'è dubbio che nessun progetto di pace globale nel Medio Oriente è possibile senza il reciproco riconoscimento, con il rispetto degli obblighi che ne derivano, dello Stato di Israele e di uno Stato palestinese aventi pari dignità ed eguale diritto. L'affermazione è condivisibile, ma non può essere un pretesto per soluzioni unilaterali. Il popolo palestinese, oggetto di persecuzioni, non può riconoscere una realtà che nega i suoi inviolabili diritti. Lo Stato di Israele, che sviluppa una politica di forza nell'intera regione medio-orientale, può esigere garanzie per la propria sicurezza solo se non calpesta il diritto altrui all'autodeterminazione. L'OLP non ha escluso, dal 1977 in poi, che alla conclusione di un negoziato globale la famosa "Carta palestinese" potrebbe essere emendata in modo da sostituire "la lotta armata rivoluzionaria", contro Israele, con una lotta pacifica e cioè politica.

Non mancano difficoltà, ma c'è spazio per soluzioni globali, giuste, pacifiche: l'importante è che la questione di un assetto territoriale della regione medio-orientale, fondata sul diritto e non sulle acquisizioni di forza, non venga trascurata perché in questo caso potrebbero risultare pregiudicati gli sforzi per ogni negoziato politico.

Luigi Granelli
La Valletta - LA VALLETTA, Malta,
2/l6 aprile 1982